Cciarduna, pezzo da 90 della pasticceria siciliana.


Attraversando lo scorrimento veloce Palermo-Agrigento, a metà percorso, è facile imbattersi in un’enorme distributore di carburante con annesso mega bar, una volta anche albergo, dove impera la pasticceria e un ottimo salato, entrambi capaci di ristorare pancia e animo.


Un luogo magico perché per secoli ha rappresentato e, continua ad esserlo, un punto di approdo per tutti coloro che si avventuravano verso la costa tirrenica o mediterranea. Nei secoli passati era conosciuta come stazione Comiciana, posizionata sull’Itinerarium Antonini, di epoca romana, redatto tra la fine del III e la metà del IV secolo, e il tratto della Via Francigena che congiungeva Agrigento, con la dorsale del medesimo percorso di Palermo – Messina, e successivamente come località S. Pietro, luogo che ha ospitato anche uno dei primi Parlamenti siciliani. Sito che, dopo gli ultimi scavi archeologici, viene collocato nel periodo sicano.


Ma torniamo ‘o cciarduni. Tra le tante prelibatezze dolciarie del motel San Pietro salta all’occhio uno dei dolci più curiosi della pasticceria siciliana: ‘u cciarduni, un tubo di pasta frolla ricoperto di granuli di mandorle tostate con l’interno ripieno di ricotta zuccherata, scaglie di cioccolata e ricoperti da una spolveratina di zucchero a velo. Questa leccornia, a detta dei più rinomati esperti, fa parte del patrimonio dolciario di Agrigento e della sua provincia, infatti lo si trova, principalmente in questo lembo di territorio ma anche nei paesi limitrofi come Castronovo di Sicilia, Lercara Friddi, Cammarata, ecc.


‘U cciarduni è anche una delle tipicità della judè Bivona (AG), dolce che viene preparato, ancora oggi, da tutte le famiglie. Famosi erano i Cciarduna del pasticciere Bonanno che è stato il punto di riferimento dell’arte bianca locale. Il legame dei cciarduna con la cittadina di Bivona trova rispondenza per il fatto che il territorio era ricco di mandorleti, successivamente gli agricoltori l’hanno sostituito con la coltivazione delle pesche, mandorle che consentono di impreziosire l’involucro esterno del dolce, ma anche per la presenza di una pastorizia davvero strabocchevole che consente di produrre un’ottima ricotta indispensabile a riempiere il delizioso cilindro. I Cciarduna di Bivona, ricorda Enza Greco,”erano grandi quanto un normale cannolo, e a volte di più”. Ogni famiglia bivonese era in possesso delle canne abbastanza grosse, con un diametro di 4 cm circa utilizzate per preparare la struttura cilindrica della leccornia, cilindri vegetali che facevano parte dell’arredo delle famiglie e che venivano lasciate in dote alle figlie che prendevano marito.


Giuseppe Coria, nella sua monumentale opera: Profumi di Sicilia, ricorda anche ‘u cciarduni di Raffadali, mentre, il musicista e scrittore, Edoardo Cicala, evidenzia che: “nelle pasticcerie di Agrigento ‘u cciarduni non manca mai”.


Per i meno fortunati, poiché non hanno mai avuto il piacere di degustare questa prelibatezza, ribadisco che si tratta praticamente di cilindri a base di una simil-pasta frolla, farciti con crema di ricotta e cioccolato e ricoperti da granella di mandorle tostate.
I meno attenti potrebbero sostenere che si tratta di un’evoluzione dei cannoli o dell’ova murina di Sciacca. Vi dico subito, no! Questo è ‘u ciarduni, pezzo da 90 della pasticceria siciliana. Dolce unico che non ha eguali, capace di provocare emozioni. La sofficità e dolcezza della ricotta amalgamata alla granella tostata di mandorle crea un armonia di gusti che non ha eguali.


Da dove salta fuori è molto difficile stabilirlo.
Con un analogo nome, naturalmente italianizzato in cialdone, lo ritroviamo lungo le sponde dell’Arno e precisamente nel regno del mitico Lorenzo de’ Medici, noto ai più con il nome di Lorenzo il Magnifico (Firenze il 1 gennaio 1449; + Careggi, 8 aprile 1492)), mecenate e icona dell’incarnazione del principe umanista rinascimentale.


Oltre ad esse un abile e accorto genio della politica era anche uomo di cultura, prolifico scrittore e un ispirato poeta. Era anche un uomo desideroso dell’altrui conoscenza, compresa l’ enogastronomia; il suo interesse non si limitava solo al cibo sulla tavola ma anche alle produzioni, come ad esempio: miele, vino e formaggi, insomma anticipando tutti, seguiva le sue produzioni “dalla terra alla tavola”, oggi i programmatori europei nella nuova programmazione europea l’hanno ribattezzata: “Farm to fork”. Leggendo brani tratti dai “Canti Carnescialeschi” e dalla “Nencia da Barberino” ci accorgiamo che Lorenzo de’ Medici descrive con entusiasmo la schiacciata, il pecorino di Pienza, il “cacio marzolino”, il migliaccio, le aringhe, le fave arrosto, le salsicce, le cosce di rana fritte e molto altro ancora. Il tutto viene solitamente accompagnato da buon vino toscano, uno su tutti, il preferito del Magnifico, vale a dire il Chianti.
Tra queste leccornie vi è la ricetta di un dolce da lui particolarmente amato, la ricetta dei cialdoni. Li amava a tal punto da dedicar loro un componimento noto come la “Canzona de’ Cialdoni”. Tra l’altro scrive come realizzarli:


«Metti nel vaso acqua e farina, quando hai menato, poi vi si getta quel ch’è dolce e bianco zucchero: fatto l’intriso, poi col dito assaggia, se ti par buono ponilo in ferri scaldati e al fuoco ponili … quando senti frigger, tieni i ferri stretti. Quando ti par sia fatto abbastanza, apri le forme e cavane è cialdoni… e ‘n panno bianco li riponi». «Metti nel vaso acqua e farina, quando hai rimescolato, poi vi si aggiunge dello zucchero: fatto l’intriso, poi col dito assaggia, se ti par buono ponilo in ferri scaldati e al fuoco ponili … quando senti frigger, tieni i ferri stretti. Quando ti par sia fatto abbastanza, apri le forme e cavane è cialdoni… e un panno bianco li riponi».


Non vorrei che qualche Monsù del Regno Delle Due Sicilie lo abbia reso più sostanzioso rafforzandolo e rivisitandolo. Dalle nostri parti sono operazioni sempre riuscite e di successo.


La ricerca si complica quando tra le pagine di storia viene fuori che i cialdoni facevano “parte della pasticceria leggera”, cotta tra due ferri, e fatta a guisa di cartoccio. Era nota ai Greci, che la chiamavano Obelias. In Francia quelle paste sono dette Oublies, e quando nel 1270, furono stabiliti degli statuti per pasticcieri, ebbero luogo in qualità di Oublayeurs (Fabbricanti di cialdoni) e non di pasticcieri. Se ne offrivano in certi dati giorni dell’anno nella chiesa ai canonici ed ai chierici, lo che fece sì che si nominassero Oblati, e di là i Francesi trassero Oublies”.


“Il Mortillaro nel suo vocabolario lo indica come “Pasta confetta con zucchero e miele, condotta sottile come un’ostia (una crèpe) attorta e ritorta a guisa di cartoccio”.
Analoga descrizione ci perviene da Alexandre Dumas figlio nel suo Grande Dizionario della cucina (1870).
Insomma, perché rincorrere la storia per giustificare la presenza di questo suadente dolce? Ci affidiamo solamente al piacere di consumarlo al cospetto di una meravigliosa Valle che il mondo ci invidia, naturalmente quella dei templi, certo, quelli Greci.

Questo dolce ha solo la sfortuna di avere come antagonista il re delle leccornie: sua maestà il cannolo. Nonostante ciò, vi do la mia parola, i cciarduna, rimangono uno dei capisaldi della pasticceria agrigentina e siciliana. Provate per credere.

La ricetta


Per la ricetta vi consiglio di realizzare quella descritta da Sicil-EAT: “Amore per il cibo siciliano” dal gruppo di cucina di Mariella Bordino.
Ingredienti:
farina 500 gr – zucchero 150 gr – strutto 100 gr – 1 busta vanillina – 15 gr di ammoniaca – latte tiepido q.b. – mandorle con la buccia tostate e macinate 250 gr – acqua 80 ml – 160 gr di zucchero.

Preparazione

Mescolate la farina e lo strutto con le mani, poi unite lo zucchero, la vaniglia e l’ammoniaca. All’impasto unite poi il latte tiepido fino ad ottenere un composto non troppo duro, fate riposare la pasta dei ciarduna per 30 minuti, se fa caldo, la mettete in frigo. Stendere l’impasto fino a ottenere una sfoglia sottile, fate delle strisce larghe 7 cm avvolgeteli ai cilindri dei cannoli imburrati non fate aderire troppo la pasta altrimenti avrete problemi per staccarli, bagnare con dell’acqua i lembi della pasta prima di saldarli l’uno sull’altro, e metterle a cuocere in forno preriscaldato a 180 °C fino a doratura (15 minuti circa). Una volta cotti, porre le scorze dei cialdoni a raffreddare a temperatura ambiente. Per staccarli girate piano i cilindri.

Per lo sciroppo di zucchero:
sciogliere lo zucchero in un tegame insieme all’acqua fredda e portare a bollore. Dopo altri 2-3 minuti, togliere dalla fiamma e lasciare intiepidire. Spennellare le scorze dei cialdoni con lo sciroppo di zucchero e passarli sulla granella di mandorle tritate.
Introdurre la crema di ricotta nelle scorze solo poco prima della consumazione, a meno che non si gradiscano dei cialdoni dalla scorza un po’ più ammorbidita dalla crema. Infine, cospargere con zucchero a velo.

Per la crema di ricotta:
500 di ricotta di pecora – 150 g di zucchero – scaglie di cioccolato.

Trucchi del mestiere:
Fate scolare la ricotta con uno scolapasta almeno 1 giorno prima dal suo utilizzo.
Vi consiglio di girare la teglia dopo 10 minuti dall’infornata, in modo da ottenere una cottura più uniforme.