Il Barbera d’Asti, visita alla cantina Braida. Di Simone Mussetti

Il Barbera d’Asti, visita alla cantina Braida.
È il vitigno più coltivato in Piemonte, quel vitigno che ha dato alle luce molte delle DOC piemontesi, è un vino talmente iconico e rappresentativo da meritarsi tante citazioni d’autore:

“Generosa Barbera, bevendola ci pare d’esser soli in mare sfidanti una Bufera” scriveva, nel 1906, Giosuè Carducci, ma rimandano a questo vino e a queste terre anche alcuni passaggi di Cesare Pavese ed altrettanti versi dell’indimenticato Giorgio Gaber. Lei è sua maestà, la Barbera.

Trascurando le già battutissime disquisizioni sull’opportunità di un articolo maschile o femminile – chi è piemontese sa come nella parlata quotidiana solitamente si adoperi il maschile per indicare il vitigno, ma si preferisca di gran lunga il femminile per indicare il vino – è invece quanto mai interessante perdersi nella storia e nelle caratteristiche di queste uve, capaci di affascinare, un po’ più o un po’ meno, qualsiasi palato.

Per lasciarmi guidare in questo viaggio, mi affido a uno dei padri fondatori, se così possiamo dire, del Barbera, o almeno di quello che conosciamo oggi: l’azienda del compianto Giacomo Bologna, che come il padre era soprannominato “Braida” per via della somiglianza fisica con il campione di pallone elastico, e che dal 1961 ha guidato l’omonima cantina.
Ci troviamo in un piccolo paese di poco più di 1000 abitanti in provincia di Asti, a Rocchetta Tanaro, un borgo che ha fatto, sin dal Neolitico, della presenza del fiume Tanaro la sua più grande fortuna, nonostante non manchino talvolta eventi alluvionali considerevoli; non di rado accade che il suolo argilloso restituisca alla luce importantissimi fossili di quell’epoca.
A Giacomo, dicevamo, si devono, infatti, le prime sperimentazioni che hanno permesso alla Barbera di accrescere il suo prestigio, lasciandosi alle spalle quel suo appellativo in dialetto monferrino, “barberasa”, che non voleva essere un insulto, ma che ne rimarcava comunque la “grossezza”, la carnosità: “vino spesso, rotondo, carnoso, quadrato di corpo, quando scrive nella tovaglia deve essere nero e fortemente affermativo” scriveva Depero.
Guidato dalla voglia di innovazione, senza per la volontà di discostarsi da un prodotto che aveva già una sua ben delineata identità, Giacomo lavora per ottenere un vino meno sbilanciato, da pasto sì, ma capace di diffondersi oltre il mero pranzo dei contadini in vigna, o nei campi, e tenta l’introduzione della barrique, sull’esempio francese: il successo non tarda ad arrivare, così come anche i primi riconoscimenti nazionali ed internazionali.
Oggi Cantina Braida, è condotta dai figli di Giacomo: Raffaella e Giuseppe e conserva botti grandi e barrique, e accanto ai vitigni autoctoni, non manca di cimentarsi in colture internazionali.
Le sue etichette riflettono questa storia, sì forse recente, ma incisiva. E allora sarà “La Monella” a portarci simbolicamente alle origini, una barbera frizzante, com’è tradizione nel Monferrato, a differenza dell’albese per esempio, rifermentato in autoclave: vino fresco, da consumarsi tendenzialmente giovane, così da poterne apprezzare appieno freschezza ed effervescenza.


Ma il nostro assaggio inizia invece da uno storico Cru di Barbera di Rocchetta Tanaro: “Montebruna”. Nel mio calice un vino rosso fermo, deciso, rubino con riflessi violacei, una buona intensità al naso riconfermata poi dal gusto, che accoglie un deciso aroma di frutta rossa come fragole mature, amarene, e poi spezie, come il pepe bianco e la noce moscata, infine addirittura una pennellata di smalto. Profondo e armonioso, quest’ottimo Barbera d’Asti mi stupisce per equilibrio e bevibilità.


E se qui abbiamo dato prova di un Barbera “addomesticato”, allora non possiamo non soffermarci, ora, su un esperimento di livello successivo, ovvero sul “Bacialè” che… in origine era, secondo la tradizione piemontese, la figura che combinava i matrimoni! Proprio come in un matrimonio, infatti, Cantine Braida ha saputo sposare tra loro le caratteristiche del Barbera con alcuni vitigni internazionali come il Merlot, il Cabernet Sauvignon, il Cabernet Franc e l’aristocratico Pinot Nero. Un sodalizio, a mio modo di vedere, ben riuscito, dal quale nasce un Monferrato rosso DOC complesso, che al naso rivela sentori di frutti rossi –fragole e ciliegie mature – e neri – more e prugne su tutti – per poi sorprendere con accenni di sottobosco, spezie e cuoio.


Bricco dell’Uccellone” è invece forse l’etichetta più conosciuta della cantina. Anche qui il nome, che suscita un sorriso ai più maliziosi, deriva da una non meglio definita signora, la cui colpa era di avere… un naso piuttosto importante, quanto il becco di un uccello. L’accoppiamento Barbera– barrique disvela qui il suo massimo risultato: le dolci carezze delle piccole botti in legno alla francese fanno sì che il percorso gustativo iniziato, come sempre, con ciliegie e susine mature, si concluda con numerosi sentori secondari e terziari, come tabacco, torrefazione, cioccolato amaro e cuoio e vaniglia. Al sorso, si conferma un vino decisamente importante, che con i suoi 16,5% è in grado di meravigliare e mettere d’accordo tutti su spessore e corposità.
Concludo il mio viaggio con Braida, degustando il “Bricco della Bigotta”, altro nome che potrebbe condurre alla conclusione di un vino bacchettone, morigerato e timido. Tutt’altro! In questo Barbera d’Asti oltre all’amarena matura ho accolto, con piacere la fragranza della prugna, liquirizia, vaniglia, fichi canditi sulla fine. Una nota di ferrosità iniziale, nei casi in cui il vino non dovesse essere stato sufficientemente lasciato a decantare, potrebbe dapprima impensierire il consumatore, tuttavia l’invito è invece quello di accettare e assecondare, perché solo così si potrà capire un vino tanto complesso, strutturato, di carattere, un vino che proviene da terre di duro lavoro, da persone di poche parole, ma con l’animo nobile, un vino scuro e sostanzioso che ha per imparato ad esprimersi anche in poesia, e che è nel cuore di ogni buon piemontese, e non solo.