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VINCENZO CORRADO E LA CUCINA DEI BORBONI

di Sandra Ianni

Napoli, a partire dal 1734, con i Borbone fu uno dei centri culturali più importanti d’Europa, ospitando un numero d’abitanti tale da renderla seconda alla sola Parigi. Sotto questa egida i cantieri navali di Castellammare di Stabia varavano piroscafi metallici a vapore, la marina mercantile napoletana, in concorrenza con quella Britannica, raggiungeva i porti di tutto il mondo, il Banco di Napoli emetteva le carte di credito, e il Regno delle Due Sicilie disponeva del telegrafo.

La città e i suoi dintorni apparivano a molti dei viaggiatori del Grand Tour un luogo incantato e pieno di fascino, dove antico e moderno si fondevano con il ben vivere e il ben mangiare. Ricevere i viaggiatori altolocati era considerato un onore e quasi un obbligo della corte e dell’aristocrazia napoletana. Se inizialmente la gastronomia di corte fu soprattutto d’ispirazione francese e spagnola con il regno di Ferdinando andò ad assumere una propria e piena identità.

Durante il regno borbonico, durato dal 1734 al 1861, si diffuse tra le cucine delle famiglie aristocratiche una nuova figura professionale, diversa dal semplice cuoco: il monsù o monzù. Al riguardo si racconta che Maria Carolina d’Austria, sorella di Maria Antonietta, quando andò in sposa a re Ferdinando, non amando la cucina partenopea, che considerava poco raffinata, chiese alla sorella di inviarle i suoi raffinati cuochi francesi.

Questi cuochi riuscirono a fondere la cucina francese con quella partenopea, alleggerendola e spettacolarizzandola. Inizialmente chiamati monsieur, perché il nome francese donava prestigio, fu poi storpiato in monzù o monsù. Avere un monsù celebre era, per una casata aristocratica, motivo di vanto e orgoglio. Il titolo era talmente prestigioso che veniva tramandato di padre in figlio. Tra le celebri dinastie di monzù a Napoli si distinsero i Pallino, il cui vero cognome era Micera, i Polisano e i Piccolo. Le influenze francesi si fanno sentire anche nei nomi dei piatti tradizionali napoletani, come ad esempio il ragù, italianizzazione del ragout, il gattò di patate derivante dai gateaux d’oltralpe, il sartù di riso e crocchè.

Tuttavia non si può parlare di gastronomia borbonica senza chiamare in causa Vincenzo Corrado, nato a Oria (BR) nel 1736 e morto a Napoli nel 1836. Uomo di notevole cultura, fu soprattutto grande gastronomo e uno dei maggiori cuochi che si distinsero tra il Settecento e l’Ottocento nelle corti aristocratiche napoletane. Fu il primo a mettere per iscritto quella che sarebbe poi stata nota come cucina mediterranea e a valorizzare la cucina regionale.

Giunse nel 1749 a Napoli trovando una città cosmopolita, in pieno fermento culturale, sociale e politico. Appena adolescente fu introdotto come paggio alla corte del principe Michele Fontana, gentiluomo di camera del re, grazie al quale riuscì a completare gli studi in matematica, astronomia, scienze naturali e arte culinaria. Vincenzo rimase abbagliato dallo sfarzo di corte, dalla sontuosità dei banchetti, quasi stregato dai personaggi che la frequentavano. Erano anni di profondi divari sociali e lui ebbe la fortuna di servire le tavole più altolocate del regno, dominate da più di un secolo dai Monsù.

Proprio i suoi studi lo portarono all’apice della carriera con la nomina a Capo dei Servizi di Bocca, cioè sovrintendente alla cucina e alle preparazioni delle vivande e all’organizzazione dei banchetti del principe. Allestiva elegantissimi banchetti alla corte di don Michele Imperiali, principe di Francavilla, dove coordinava un piccolo esercito di domestici, cuochi e paggi. Preparava i pranzi, o le cene, con particolare assortimento di vivande accoppiandole con fantasia e con particolari accorgimenti architettonici ed artistici al fine di formare una particolare e sontuosa coreografia.

Dalla corte napoletana Corrado fu presto richiesto anche alla Reggia di Caserta e a quella di Versailles. Oltre che per la bontà delle sue pietanze, era apprezzato per la capacità di portare piatti poveri sulle tavole dei ricchi, nobilitandoli e contaminandoli con tradizioni diverse. 

Pur non opponendosi al lessico gastronomico francese, a quei tempi imperante, nel complesso si mantenne fedele alla pratica tradizionale della cucina italiana, e in particolare napoletana, rivelando lo sforzo di voler integrare le cucine estere a quella locale, servendosi di una scrittura semplice, concisa ed esauriente.

Nel 1773 pubblicò <em>Il cuoco galante definito all’epoca un libro di alta cucina e richiesto in tutto il mondo dalle principali autorità dell’epoca. Il libro è organizzato in ampi capitoli, ciascuno dedicato ad un argomento:minestre, carni domestiche e selvatiche, pesci, uova, latticini, verdure, crostate, dolci, sapori, conserve. A sua volta suddiviso in brevi paragrafi in cui si prescrivono i modi di cucinare le vivande. Il cuoco galante ebbe larga fortuna come testimoniano le numerose edizioni e ristampe giunte fino alla metà dell’Ottocento.

Fu autore dell’opera Il Credenziere di buon gusto (1778) in cui si concentra sull’arte del buon gusto, fornendo consigli pratici su come scegliere i migliori prodotti alimentari, abiti, mobili e oggetti d’arte per creare un ambiente elegante e raffinato. L’opera divisa in diverse sezioni, ognuna delle quali si concentra su un diverso aspetto del buon gusto, oltre ai capitoli dedicati alla cucina, alla moda e alla decorazione d’interni. L’edizione fu, successivamente ampliata nell’edizione del 1820 con due trattati uno sulla cioccolata e l’altro sul caffè.

Di Vincenzo Corrado è anche da ricordare l’opera: Del Cibo Pitagorico (1781), che diede il via a una cucina raffinata e leggera, proponendo anche l’uso di alcuni nuovi ingredienti come ad esempio la patata e il pomodoro, fino allora poco o per nulla utilizzati.

Uno dei capitoli più interessanti è il Vitto Pitagorico, basato su erbe fresche, radici, fiori, frutta, semi e tutto ciò che la terra produce. Tale scelta in linea con la teoria propugnata da alcuni illustri esponenti della scienza medica dell’epoca, vedeva un riavvicinamento l’uomo alla natura. Rappresentava il cibo più giovevole alla salute e più idoneo per un’aspettativa di vita lunga e sana.

Salvaguardando il gusto dei nobili e provvedendo alla conservazione in salute dei letterati, senza rinunziare al lusso di imbandire laute mense. Per rendere più appetibili le scialbe verdure e i cibi erbacei, il Corrado si concesse però molte licenze. Spesso facendo ricorso a sughi di carne, insaccati, lardo, sugna, prosciutto, frattaglie e quant’altro potesse dare sapore a piatti di verdura, troppo rustici per i palati raffinati cui era destinato. Il suo cibo pitagorico consiste pertanto in una cucina vegetariana alquanto atipica.