Dietro le quinte del Chateau Leoville-Poyferré, 2ème Grand Cru classé di Bordeaux.

Di Francesco Piccat.
Parlare di vini blasonati è estremamente difficile perché chi scrive può commettere due tipi di errori. Si può cadere nella più lusinghiera e sottomessa descrizione da buon studente così come nell’aprioristica avversione snob da blogger indipendente. Una metodologia più adeguata alla missione potrebbe semplicemente essere quella di raccontare cosa si ha ascoltato, visto e assaggiato, ed è proprio questa la spina dorsale di questa piccola riflessione.

Raggiungere il Médoc dal centro di Bordeaux rappresenta un viaggio nelle speranze della Francia degli anni 70: strade periurbane disseminate di piccole ville all’americana con giardino, piscina e buca delle lettere rossa. Oltrepassati gli infiniti incroci ci si addentra in uno spazio sempre più collinare e rarefatto in cui a poco a poco compaiono i primi filari. Sui margini della strada appaiono nomi mitici: Margaux, Pauillac, ma la nostra destinazione è Saint Julien.

Il Médoc vitivinicolo non si nasconde alla vista: si tratta di un altipiano che scende ad Est sulla Gironda, l’estuario della Garonna e della Dordogna in cui i migliori appezzamenti non sono né troppo in alto né troppo vicino all’acqua. In medio stat virtus, un po’ come in Borgogna.

Allo Chateau Leoville-Poyferré ci accoglie Thomas Crespin che ci mostra la carta topografica della tenuta e ci racconta sua la travagliata storia ereditaria. Un’urna con i differenti tipi di suolo aiuta il visitatore a dare importanza all’onnipresente argilla e calcare e alle piccole pietre che affiorano alla superficie. Nel grande cortile interno quattro piccoli filari di vite sono studiati per mostrare al visitatore i quattro vitigni più rappresentativi dello Chateau, in ordine il Cabernet Sauvignon, il Merlot, il Cabernet Franc e il Petit Verdot.

La visita al processo di vinificazione è da antologia in quanto gli spazi sono pulitissimi, i macchinari innovativi e tecnologici e i processi ben studiati. La pulizia colpisce l’occhio del visitatore di molte cantine, i macchinari d’eccezione dimostrano sia un grande afflusso di capitali sia una tensione costante verso la realizzazione di un prodotto d’eccellenza. Si parte da una macchina a lettore ottico che controlla ogni acino prima della pigiatura (acini già controllati da mano umana), per poi passare a tini a forma quasi ovoidale per permettere al fiore all’occhiello della casa, lo Chateau Leoville-Poyferré 2ème grand cru classé, di non subire troppi rimontaggi in fase di vinificazione. Qualche esperimento con l’anfora certifica l’attuale tendenza delle cantine a trovare nuovi aromi che vengono da est.

La macchina a lettore ottico per il controllo di qualità di ogni singolo acido

I tini a forma quasi ovoidale

La grande sorpresa arriva però nella sala dell’affinamento, in cui una foresta di rovere francese a forma di botte inebria l’olfatto di vaniglia e tostatura. Sì, fare un vino d’eccezione costa moltissimo, e Thomas ci dice che uno dei nasi dello Chateau sceglie personalmente diversi produttori di botti per conferire al vino un concerto di sentori leggermente diversi l’uno dall’altro. Non manca l’arte artigiana che dipinge la parte centrale delle botti con le vinacce, costringendole a portare per sempre una banda violacea.

La sala delle degustazioni è pensata per masterclass e degustazioni professionali, con tanto di quadro elegiaco di Bordeaux e del suo commercio del vino. Sono tre i vini proposti alla degustazione, il Pavillon de Léoville Poyferré 2017, lo Chateau Moulin Riche 2016 e lo Chateau Léoville Poyferré 2015.

Pavillon è il second vin della casa, affina volutamente in barrique più volte utilizzate, proprio perché lo Chateau ha voluto creare un vino più intuitivo e immediato. 58% di Cabernet Sauvignon, 27% di Merlot, 9% di Cabernet Franc e 6% di Petit Verdot. Rosso rubino, al naso intensi aromi primari di frutti rossi che al palato durano molto.

Il secondo vino è lo Chateau Moulin Riche, ed è il secondo Chateau di St Julien, unicum del genere perché porta il nome Chateau in etichetta senza essere il grande vino della casa. Speziato, ha una più alta proporzione di Merlot (26%) rispetto al precedente, ma in cui il Cabernet Sauvignon è comunque dominante (63%). Siamo pur sempre nella rive gauche.

Il Grand Vin dello Chateau, millesimo 2015, è la ragione per cui si spendono così tanti soldi. Sia dal lato consumatori (la bottiglia costa più di 140 euro in loco), sia dal lato proprietà per tutti gli investimenti descritti prima. Il colore è un granato stupendo, riflessi porpora, limpidità assoluta. Al naso è una lotta tra frutti rossi e neri, vaniglia da gelato buono e fumo di affumicatura da ristorante stellato. Non costasse così tanto sarebbe da servire nei corsi di degustazione per far capire agli studenti il sentore mentolato e di eucalipto. Ricorda quegli aromi essenziali che si usano nelle notti d’inverno per curare i raffreddori più ostinati.

Al palato, tutto questo insieme con tannini morbidi e setosi. Vino da antologia.

Nella foto da sx: Andrea Carpani, Luca Testone, Thomas Crespin e Francesco Piccat