Vi è mai capitato di preparare la pasta fresca all’uovo a casa?
Semplice, avete bisogno di un uovo, preferibilmente biologico, ogni 100 g di farina “00” o “0”, oppure “1” o “2” se volete prepararla integrale e un pizzico di sale. Disponete a fontana la farina setacciata, fate un buco centrale, dove mettete le uova intere prive di guscio. Mescolate prima con una forchetta, poi con le mani fino ad ottenere un impasto liscio, che farete riposare per 30 minuti coperto con un canovaccio.
Poi potete dividere in pezzi e stendere col mattarello o con la macchina sfogliatrice e tagliare secondo il formato che preferite.
Però, già le nostre nonne, che non peccavano certo di mancanza di fantasia, sapevano come colorarla con ciò che avevano a casa, ad esempio, le barbabietole.
Oggi siamo abituate a trovarle confezionate già bollite, quindi, ne basterà un pezzetto, frullato nel mixer, da aggiungere a mezzo kg di farina. La quantità di barbabietola per 100 g di farina sarà responsabile del colore, quindi, per un colore più intenso ne metteremo di più, di meno per colore più delicato.
La pasta può essere colorata di rosso anche col concentrato di pomodoro, in questo caso le dosi sono 4 cucchiai per 600 g di farina.
Se il colore che volete ottenere è l’arancione, allora, bisognerà aggiungere le carote o la zucca. Le proporzioni sono le seguenti: 100 g di purea di zucca per 100 g di farina, mentre con le carote 50 g per 100 g di farina. In questo caso, per ottenere la purea, bisogna pulire le carote o la zucca e farla cuocere, preferibilmente a vapore, fino a quando diventano morbide e cremose.
Per una pasta gialla bisogna aggiungere lo zafferano secondo il seguente rapporto: ½ bustina di zafferano ogni 100 g di farina.
Invece, per una pasta verde aggiungeremo delle verdure (spinaci, borragine in foglie oppure dell’ortica), secondo un rapporto di 10 g di purea per 100 g di farina. Quindi, le verdure andranno lessate in acqua leggermente salata e frullate al mixer fino a quando non saranno ridotte a purea.
Restano le colorazioni più scure: marrone col caffè e nera col nero di seppia. Nel primo caso si aggiunge un cucchiaino raso di caffè per 150 g di farina. Naturalmente, in questo caso, il caffè influisce sul gusto finale della pasta ed è preferibile condirla con sughi di carne. Nel caso del nero di seppia, se si è acquistato già confezionato, seguire le istruzioni della ditta produttrice, mentre se si usa direttamente la sacca è meglio diluirlo con un pochino di olio e aggiungerlo gradatamente fino ad ottenere la colorazione desiderata. In questo caso è preferibile condirla con sughi di pesce.
Un altro tipo di pasta molto particolare è la pasta al cacao, che è una pasta delle feste, le proporzioni sono le seguenti: 10 g di cacao per 100 g di farina, cui si aggiunge un uovo e un pizzico di sale. Generalmente il formato è quello dello tagliatelle e ho trovato diverse ricette interessanti di cui riporto il link: https://ricette.giallozafferano.it/Tagliatelle-al-cacao-noci-e-gorgonzola.html, https://frosinone.italiani.it/tagliatelle-al-cacao/.
Una dieta varia è alla base di una sana alimentazione e questo può essere uno spunto per la preparazione di piatti unici con un buon apporto di macronutrienti, ma appetitosi e piacevoli al gusto. La presenza di verdure oppure di ortaggi, anche se in misura limitata, aumenta il contenuto di fibre che riducono l’indice glicemico del piatto.
“Le origini della pasta sono molto antiche. Presente nelle sue forme più semplici e primordiali in diverse parti del continente euroasiatico, fin da tempi remoti, sviluppandosi in maniera totalmente parallela, indipendente, diversificata e senza alcuna relazione reciproca, dalle valli cinesi dell’estremo oriente, alle aree mediterranee della penisola italica. In quest’ultima zona in particolare, ebbe un rapido e importante sviluppo gastronomico e tradizionale, che durerà intatto fino all’attualità.
La pasta, infatti, era già ampiamente conosciuta ai tempi della Magna Grecia (Sud Italia) e dell’Etruria (Italia Centro-Occidentale), dove veniva però chiamata in altri modi.
Quest’ultima era conosciuta con il termine greco làganon o con l’etimo, a più ampia radice mediterranea, tanto etrusco come magnogreco ed italico, makària o makarṓnia (col significato di “cibo beato”, offerto in cerimonie funerarie), il quale, una volta subentrato nel vocabolario latino, giunge fino ai nostri giorni sotto forma del verbo di alcune zone dell’Italia meridionale [a]’maccari che, a sua volta, è all’origine dei termini dialettali maccaruni/maccaroni e del corrispettivo maccheroni, nonché del verbo italiano ammaccare (avente significato generico di fare pressione, premere, schiacciare o, nel caso della pasta, con il senso di lavorare una materia massosa pressandola, impastandola e modellandola); mentre il termine latino làganum veniva usato per indicare un impasto di acqua e farina tirato e tagliato a strisce. Conosciuto e documentato è infatti che, già Cicerone, l’antico filosofo romano, tesseva lodi parlando di làgana, termine latino dal quale deriva la nostra attuale lasagna.
Il suddetto termine è infatti ancora usato in alcune regioni del Sud Italia, in particolare in Irpinia (Campania) con le tipiche làine e fasuli, nel Cosentino (Calabria) e in altre zone della Puglia, della Basilicata (làgane e ciceri) e del Lazio, per indicare della pasta lunga a strisce (simile alle tagliatelle, ma più corta), conosciuta ancora attualmente col nome di làgana o làina, solitamente condita con leguminacee a secco e amalgamata con olio d’oliva e spezie, così come si faceva in antichità. Il vocabolo latino păsta, che era più generico, deriva dal termine păstam e dal sinonimo greco πάστα (pàsta-ein), col significato di “ammasso di farina con salsa o condimento”, derivante a sua volta dal verbo pássein, cioè impastare. Questo termine comincia a essere impiegato in Italia a partire dall’anno 1051 circa, anche se a cercare le origini della pasta, chiamata con altri nomi, si può tornare indietro fin quasi all’età neolitica (circa 8000 a.C.) quando l’uomo cominciò la coltivazione dei cereali che ben presto imparò a macinare, impastare con acqua, cuocere e, durante il medioevo italiano, seccarne il prodotto al sole, per poterlo conservare più a lungo. La pasta, in antichità, era infatti un cibo diffuso in varie zone del bacino del Mediterraneo e dell’Estremo Oriente, nelle sue molteplici varianti locali, molte delle quali scomparse o non evolutesi, di cui si trovano tracce storiche in diverse parti del continente euroasiatico.
Questo alimento acquisisce una posizione particolarmente importante e un ampio sviluppo in Italia e in Cina, dove si sviluppano due prestigiosi e consolidati filoni di tradizione gastronomica, fin dai tempi più remoti, che pur non incontrandosi e non contaminandosi culinariamente, si completano a vicenda nella loro diversità, producendo cibi simili contemporaneamente e parallelamente, a latitudini diverse e in continenti lontani, culturalmente distinti e con materie prime e tecniche ben differenti, i quali si possono ancora incontrare sulle tavole degli uomini d’oggi, in quasi tutto il mondo, grazie alle esportazioni globali che, partendo da queste due nazioni, hanno fatto il giro del globo, ma di cui rimane difficile, se non impossibile, stabilire e ricercare rapporti tra essi prima dell’epoca odierna, proprio per la complessità dei percorsi intermedi. Effettivamente, la pasta così come noi la conosciamo oggi, è autoctona e tradizionale di entrambi i Paesi, sia dell’Italia (da cui si è mossa in altri Paesi Occidentali), che della Cina (da cui si è diffusa nel resto dell’Oriente), ma sviluppatasi nei due casi con tecniche e materie distinte. Una delle testimonianze più antiche, databile intorno a 3800 anni fa, è data da un piatto di 麵 (lāmiàn), dei noodles cinesi di miglio, rinvenuti nel Nord-Ovest della Cina, presso la città di Lajia, sotto tre metri di sedimenti.
Il ritrovamento cinese viene, storicamente, considerato assolutamente indipendente e completamente diverso da quello italiano, anche perché all’epoca i cinesi non conoscevano il frumento, caratteristico delle produzioni italiane e mediterranee, che tra l’altro utilizzano metodi di lavorazione completamente differenti; il che ne sottolinea maggiormente il parallelismo d’autore e la diversa origine tra i due cibi e fra le due invenzioni culinarie. Allo stesso modo possiamo trovare tracce di paste alimentari, altrettanto antiche, già tra Etruschi, Greci, Romani e altri popoli italici. Chiara è la testimonianza per gli Etruschi rinvenuta a Cerveteri, nella tomba della Grotta Bella, risalente a un periodo tra il V e il IV secolo a.C., dove su alcuni rilievi sono chiaramente raffigurati degli strumenti ancora oggi in uso in Italia per la produzione casalinga della pasta fresca, come spianatoia, matterello e rotella per tagliare. Per il mondo greco e quello latino numerose sono le citazioni fra gli autori classici, tra cui Aristofane e Orazio, che usano i termini làganon (greco) e làganum (latino) per indicare un impasto di acqua e farina, tirato e tagliato a strisce (quasi identici alle tagliatelle, ai tagliolini e alle fettuccine, ma più corti e tozzi). Queste lagane, ancora oggi in uso nel Mezzogiorno d’Italia (da cui viene l’attuale parola laina), acquisiscono tanta dignità da rientrare nel quarto libro De re coquinaria del conosciutissimo ghiottone e filosofo gastronomico latino Apicio, vissuto nel 90 a.C. e autore del primo libro di cucina tuttora conosciuto. Egli ne descrive minuziosamente i condimenti, tralasciando spesso le istruzioni per la loro preparazione, facendo così intendere che la pasta fosse ampiamente conosciuta e usata in tutta l’Italia antica, tanto che era superfluo descriverla.
Secoli dopo, presso gli arabi medievali, il poeta e musicista Ziryab, che era anche un appassionato gastronomo del IX secolo d.C., descriveva, nell’anno 852, impasti di acqua e farina molto diffusi nella Sicilia musulmana, assimilabili alle paste alimentari e antenati dei vermicelli e degli attuali spaghetti. Ne Il diletto per chi desidera girare il mondo o Libro di Ruggero II (Kitāb Rujārī), pubblicato nel 1154, Al-Idrisi, geografo di Ruggero II di Sicilia, descrive Trabia, un paese a 30 km da Palermo, come una zona con molti mulini dove si fabbricava una pasta a forma di fili modellata manualmente ed evolutasi dal làganum di epoca romana, che successivamente prenderà il nome di vermicelli e in seguito di spaghetti, ma che al tempo Idrisi apostrofava, nella sua lingua, con il termine più generico di itriyya (dall’arabo itriyya e a sua volta dal greco itrion, che significava appunto “pasta secca stirata e filiforme”, nome, quest’ultimo, tuttora in uso anche per alcune altre tipologie di paste lunghe meridionali, prodotte ancora oggi dalle massaie di Puglia e di Sicilia e chiamate con il vocabolo dialettale trija o tria) e che, una volta essiccata, veniva spedita con navi in abbondanti quantità per tutta l’area del Mediterraneo, sia musulmano che cristiano, così come ben descritto da Al-Idrisi, dando origine a un commercio molto attivo, che dalla Sicilia si diffondeva soprattutto verso nord lungo la penisola italica e verso sud fino all’entroterra sahariano, dove era molto richiesta dai mercanti berberi.
Nel 1279 il notaio marchigiano Ugolino Scarpa, facendo un elenco di ciò che un milite genovese, tale Ponzio Bastone, lasciava alla sua morte nella sua povera eredità, descrive in italiano medievale: “una bariscella plena de maccaroni”, facendo riferimento appunto a una “cesta di vermicelli” (o spaghetti); e ancor prima, nel 1244, un medico bergamasco promette a un lanaiolo di Genova che lo avrebbe guarito da un’infermità alla bocca se egli non avesse mangiato né carne, né frutta, né cavoli, né pasta, scrivendo testualmente in latino volgare italo-romanzo: “….et non debae comedare aliquo frutamine, neque de carne bovina, nec de sicca, neque de pasta lissa, nec de caulis…”, vietandogli appunto di mangiare, tra altri alimenti, anche la pasta; altro esempio è quello del 1221 presente in una cronica di Fra’ Salirnbene da Parma, che parlando di un frate grosso e corpulento, tale Giovanni da Ravenna, annota: “….non vidi mai nessuno che come esso si abbuffasse tanto volentieri di lasagne con formaggio!”; e ancora si potrebbero menzionare gli scritti del poeta Jacopone Da Todi, che nel 1230, in una sua lettera al Papa, parla e descrive ampiamente i maccaroni, trattandoli come se fossero un oggetto di piacere sublime e ultraterreno.
Queste testimonianze e molte altre, tutte scritte e documentate in Italia, posteriormente ai testi dell’antichità classica del mondo greco-romano ed etrusco, dimostrano che, la pasta, così come noi oggi la conosciamo, fosse ben diffusa e conosciuta, prodotta e consumata fin dall’alto medioevo, in tutta la penisola italica, da nord a sud, e rappresentano le prime testimonianze rintracciabili e tangibili sulla pasta alimentare che poi entreranno nella storia.” (https://it.wikipedia.org/wiki/Pasta).
PARTENDO DAI COLORANTI “ALIMENTARI” DELLA PASTA…La pasta viene considerato, un po’ in tutto il mondo, un piatto cardine della nostra dieta mediterranea. In realtà la dieta mediterranea è molto più complessa ed è solo un aspetto del più complesso stile di vita degli ultracentenari e, a mio parere, bisogna adattarlo, così come ci racconta la sua storia, ai tempi di oggi, riducendone le porzioni, arricchendole di verdure, in base a quello che è diventato il nostro stile di vita attuale.
Dal punto di vista universitario la mia carriera si potrebbe riassumere in poche parole: farmacista, biologa e nutrizionista . La passione dell’enogastronomia è nata, invece, un po’ prima del periodo universitario. Già dalle superiori, frequentando l’Istituto per Chimici “Michele Giua”, una delle materie di studio era Impianti Chimici ed uno dei docenti, l’allora Direttore della Cantina di Dolianova, ci aveva fatto studiare tutto il processo di produzione del vino, degustazione compresa. È stata una passione nata in quel periodo e che ho inseguito, per un bel po’ di tempo, nei periodi un po’ più liberi dagli studi universitari e di aggiornamento professionale. Finalmente nel 2019 sono diventata Sommelier e nel 2020 Maestro Degustatore Salumi, ma intorno al 2000 ho diretto la produzione alimentare e liquoristica presso un’azienda sarda, occupandomi anche di Ricerca scientifica applicata alla produzione industriale. Con Epulae ho iniziato a scrivere di questo mondo che mi appassiona, cercando di trasmettere non solo l’entusiasmo, ma anche tanti anni di approfondimento e di esperienza pratica.